Misteriosi treni con scorie radioattive, testate nucleari nel sottosuolo, depositi di plutonio e siti di stoccaggio a rischio allagamento. Soldi pagati tuttora in bolletta per centrali chiuse da 25 anni: un libro inquietante racconta fatti tuttora ignoti alla gran parte della popolazione.
C’è un libro, uscito recentemente, che racconta fatti inquietanti e maledettamente documentati. Si chiama “Scorie radioattive” (Aliberti) ed è stato scritto da Andrea Bertaglio e Maurizio Pallante. Non è il solito libro pro o contro il nucleare, ma un compendio di fatti reali sui quali, nonostante quanto vi sia riportato, c’è ancora un grande silenzio informativo. Si può essere sicuramente favorevoli al nucleare, ma nel libro si raccontano le conseguenze di ciò che è stato il nucleare in Italia e dei costi che paghiamo tuttora. Si può essere favorevoli al nucleare, a patto che la popolazione sia informata, come in ogni democrazia. Invece pare di no. Perché in queste pagine sono riportate questioni allarmanti e vicende del tutto ignote alla gran parte della gente. Abbiamo incontrato Andrea Bertaglio.
Nella seconda parte del suo recente libro “Scorie Radioattive” (Aliberti) scritto insieme a Maurizio Pallante, lei racconta alcune storie inerenti il nucleare italiano che non sono esattamente note a tutti. Cominciamo dai treni carichi di scorie radioattive che fanno la spola tra Italia e Francia. Di cosa si tratta?
L’avventura nucleare italiana ci ha lasciato in eredità una serie di problemi ancora tutti da risolvere. Primo su tutti, appunto, quello delle scorie radioattive. Alcune di queste viaggiano per l’Europa in attesa di essere stoccate definitivamente in un deposito che, però, in Italia ancora non c’è. Lo fanno trasportati su treni di container carichi di combustibile nucleare esaurito. Che, nel pieno della notte, di tanto in tanto partono dall’Italia per raggiungere la centrale di riprocessamento de La Hague, in Francia. È un lungo percorso, quello delle scorie del vecchio nucleare italiano, che dal Piemonte va nella Manche, passando attraverso numerosi dipartimenti: zone densamente popolate come l’hinterland torinese o la Valle di Susa. Ma anche la Région parisienne, la zona più popolosa d’Oltralpe. Le scorie italiane percorrono infatti nei loro viaggi anche la Rer (Rete espressa regionale), il servizio ferroviario urbano e suburbano dell’area metropolitana di Parigi, frequentata da centinaia di migliaia di persone. Una volta attraversata, vengono caricate su camion e raggiungono l’impianto Areva di La Hague, appunto, per essere “trattate”. Dopo tutto questo giro, in date spesso ignote, ripartono per l’Italia.
Nel libro si parla ad esempio delle tredici tonnellate di combustibile nucleare irraggiato che dal vecchio reattore della Garigliano, centrale nucleare da 150 MW a Sessa Aurunca (CE) chiusa definitivamente nel 1982, ben cinque anni prima del referendum che mise fine al nucleare in Italia, un anno fa sono state spedite prima a Saluggia, in provincia di Vercelli, e poi appunto in Francia, provocando forti scontri fra i manifestanti e la polizia. Un fantasma atomico che ha attraversato l’Europa alla ricerca di soluzioni e che, visto l’approccio approssimativo con cui viene gestita la questione, ha messo più volte in apprensione le popolazioni locali interessate.
La popolazione è informata di questi passaggi o sa come tutelarsi nel caso di un incidente?
Purtroppo no, generalmente non viene comunicato nulla alla popolazione riguardo al passaggio di questi treni. Il motivo potrebbe essere quello di non informare un eventuale terrorista delle modalità e degli orari del trasporto. Quello che però gli attivisti e i cittadini contestano non è tanto il fatto che non informino su quando avvengono questi trasporti, ma che non informano la popolazione sulle misure da adottare in caso di emergenza. Indipendentemente da quando questi trasporti nucleari avvengono, la popolazione che vive lungo quel tratto di ferrovia deve essere informata su cosa deve fare in caso di necessità; e questo è obbligatorio sia per la legge italiana, che per quella europea, che per quella regionale del Piemonte. Il protocollo di legge prevede infatti che la popolazione venga avvisata per tempo e che venga predisposto un piano di sicurezza. Una situazione assurda, se ci si pensa, che ha portato le sezioni piemontesi delle associazioni ambientaliste Pro-Natura e Lagambiente a diffidare la stessa Regione Piemonte. Non perché non ha mai detto a che ora passano i treni, cosa che peraltro non è obbligata a fare, ma proprio perché non è mai stato diffuso un piano di emergenza.
Certo, sarebbe complicato, perché le persone coinvolte sarebbero moltissime, visto che questi piani di emergenza prevedono che si allerti la popolazione residente in una fascia di duecento metri ai lati della ferrovia da cui passano questi treni, ma per legge la Regione Piemonte sarebbe tenuta a farlo. In caso di incidente sono previste delle misure sia di evacuazione che di permanenza in casa, e le persone per legge dovrebbero saperle prima, così da evitare un macello nel momento in cui dovesse succedere qualcosa di indesiderato.
Cosa potrebbe accadere in caso di incidente?
È facile intuirlo. Un treno di rifiuti radioattivi che dovesse disperdere anche una piccola parte del suo contenuto in una zona densamente popolata come quelle attraversate potrebbero creare tragedie che non si risolverebbero tanto facilmente. Basta vedere cosa è successo l’anno scorso in Giappone, dove le persone ancora oggi sono costrette a vivere al di fuori della cosiddetta “zona di esclusione”, e possono fare rientro a casa propria una sola volta al mese, per evitare eccessivi rischi di contaminazione. Certo lì si sta parlando di una intera centrale, ma sarebbe meglio non sottovalutare nemmeno questi trasporti che, come abbiamo visto, hanno provocato accese proteste anche in Germania. Bisogna stare allerta, senza creare allarmismi, ma considerando che un rischio enorme deriva anche solo dal fatto che la gente, quando in caso di emergenza non sa come comportarsi, può anche peggiorare la situazione.
E tutto ciò per cosa? Per non risolvere il problema. Quella del riprocessamento in Francia è infatti una cosa completamente inutile: in questo modo l’unica cosa che si fa è quella di togliere le barre di combustibile dall’Italia per un po’ di tempo (dieci o quindici anni), senza però risolvere il problema. La radioattività dopo qualche anno ritornerà completamente. Una questione prettamente di immagine per chi fa queste scelte, che però rinvia solamente la risoluzione dei problemi. Che non si limitano a Trino e Saluggia, ma riguardano anche Caorso, ad esempio, che ha mandato tutte le sue scorie in Francia per il riprocessamento, ma che appunto riceverà presto tutto indietro. Queste barre dovrebbero trovarsi invece nel famoso deposito nazionale, che l’Italia comunque prima o poi dovrà fare. Doveva essere fatto per legge entro il 31 dicembre 2008, ma ancora non c’è. E queste scorie continuano ad andare avanti e indietro per il pianeta.
Lei parla anche di cifre. E del fatto che l’Italia debba sborsare ancora cinque miliardi di euro da qui al 2025 per la bonifica dei vecchi impianti.
Sì, nonostante i festeggiamenti seguiti alla schiacciante vittoria dei sì ai referendum dello scorso
giugno, i cittadini italiani dovranno sostenere questi enormi costi per la bonifica completa dei siti e degli impianti preesistenti. Una cifra importante, rivelata da Sogin, la società per la gestione degli impianti nucleari controllata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, responsabile del decommissioning nazionale, ossia del piano di gestione delle scorie radioattive e bonifica delle centrali nucleari: solo nei primi cinque anni si dovranno spendere 400 milioni di euro. La gestione (lo smaltimento non è possibile) delle scorie nucleari prodotte in Italia nel periodo atomico (1946-1990), che a metà anni Sessanta ha portato il Paese a essere il terzo maggiore produttore di energia nucleare, dopo Stati Uniti e Gran Bretagna, già nel 1998 è stata affidata alla Sogin, una società pubblica che, in quanto tale, porta gran parte dei costi generati dalle attività che le sono state affidate ad essere sostenuti dagli italiani. Siamo infatti noi cittadini, in un momento già difficile di suo, a dovere pagare lo smantellamento attraverso le bollette dell’elettricità, alla voce “oneri nucleari” contenuta nella componente A3. E se a quasi venticinque anni dall’abbandono della produzione di energia da fonte termonucleare si devono ancora affrontare tutti questi problemi e questi costi, è difficile immaginare quanto si sarebbe speso se il referendum del 1987 avesse dato un esito diverso.
Tra i particolari più inquietanti c’è il racconto sul comune di Saluggia, in provincia di Vercelli. Sostiene che le esondazioni di Po, Tanaro e Dora Baltea potrebbero causare qualcosa di più di un danno ambientale. Di cosa si tratta?
In Piemonte si è passato con il fiato sospeso gran parte dell’autunno 2011 a causa delle abbondanti piogge. Le preoccupazioni erano legate in particolare alle possibili esondazioni dei fiumi Po e Tanaro, ma soprattutto della Dora Baltea, che scorre proprio da Saluggia, nel vercellese, dove è stipato l’85 per cento di tutti i rifiuti radioattivi italiani. Si trovano presso l’impianto Eurex e il deposito Avogadro, e sono perlopiù in forma liquida: rifiuti altamente radioattivi che, ormai da trent’anni, si trovano letteralmente a due passi dalla Dora Baltea, su un terreno ghiaioso-sassoso che aumenta il rischio di contaminazione, e a 1,5 km dal più grande acquedotto del Piemonte, quello del Monferrato. Non sorprende dunque che i rischi di contaminazione siano enormi. Tanto che il premio Nobel per la fisica Carlo Rubbia, quando durante l’ultima alluvione, nel 2000, vide l’acqua sommergere gran parte dei depositi, affermò che si era sfiorata una «catastrofe planetaria».
E non stiamo parlando di una possibilità così remota, ormai. Soprattutto se consideriamo il fatto che di alluvioni tragiche, in questa zona, ce ne sono state tre nell’arco di soli sette anni: una nel 1993, una nel 1994 e una appunto nel 2000. E questo nonostante celebri geologi e idrogeologi avessero previsto che alluvioni di tale portata si sarebbero potute verificare una sola volta nell’arco di un migliaio di anni. La piovosità è evidentemente cambiata negli ultimi vent’anni, così come la risposta idrogeologica dei bacini idrografici, che quando piove vedono l’acqua arrivare in poche ore al fiume. Queste cose trent’anni fa non le prevedevano per niente, e forse ce ne sono altre che ora sembrano improbabili, ma che dovremmo iniziare a considerare.
Sempre per ciò che concerne Saluggia, lei scrive che sarebbero ospitati anche 5 kg. di plutonio.
Nel deposito Avogadro sono stati stoccati elementi e combustibili irraggiati, portati lì per essere sciolti presso l’impianto Eurex, che si trova a ottocento metri di distanza lungo la riva del fiume, per recuperare il plutonio. Questo è stato solidificato e si trova presso questo impianto in quantità di 5 kg, una quantità sufficiente a uccidere cinquanta milioni di persone. C’è infatti da tenere presente che il plutonio (anche quello non utilizzato per scopi militari) ha una radiotossicità notevolissima: un decimo di milligrammo, se inspirato, costituisce ufficialmente una dose mortale.
Ma non è tutto, per questo povero Comune piemontese. Nell’ottica di gestire le scorie del nostro passato atomico, sono ripresi sempre a Saluggia i lavori di costruzione del deposito D2 presso l’impianto Eurex, il deposito di scorie in cui, grazie al via libera del Comune, verranno temporaneamente (ossia prima di un ulteriore trasferimento presso il deposito nazionale, non ancora costruito) stoccati i rifiuti radioattivi italiani, inclusi quelli generati dal decommissioning dello stesso Eurex. La volumetria del D2 è di 30 mila metri cubi, e ospiterà i rifiuti radioattivi dell’impianto Eurex: 4300 metri cubi, di cui 2300 già nel sito e circa 2000 prodotti dallo smantellamento dell’impianto. La costruzione verrà eseguita nell’arco di tre anni, mentre la vita utile del deposito sarà di cinquant’anni. Un tempo relativamente breve, se si pensa a quello che serve alle scorie lasciateci in eredità dall’avventura nucleare italiana pre-Chernobyl per “perdere” la loro radioattività, ossia decine di migliaia di anni.
Quanto ai paesi a rischio di radioattività lei cita, tra gli altri: Trino, Caorso, Sessa Aurunca, Latina e Montalto di Castro, Rotondella, in provincia di Matera, e Bosco Marengo, in provincia di Alessandria. Perché sarebbero a rischio?
Perché sono tutte zone poco ortodosse, ossia zone provvisorie in cui non si è sufficientemente attrezzati per depositarci delle scorie radioattive per interi decenni. Sia a livello tecnico che di sicurezza. Alcuni di questi depositi, infatti, sono scarsamente controllati e facilmente penetrabili. In altri casi sono situati in zone sismiche o alluvionabili. Siamo l’unica nazione al mondo che non ha un sito pensato per lo smaltimento delle scorie pur avendo avuto delle centrali atomiche. Sarebbe tempo di risolvere almeno questo problema, invece di rinviarlo sine die.
Nel libro si parla anche dell’ex centrale nucleare Enrico Fermi. Lei scrive che, benché sia in fase di smantellamento, pesi sulle bollette degli italiani 400 milioni di euro all’anno, pur essendo inattiva dal 1987.
La centrale E. Fermi di Trino, un altro paese in provincia di Vercelli a pochi chilometri di distanza da Saluggia, ricorda sotto certi aspetti quella dei “treni radioattivi”, nel senso che alle persone non è mai stato detto cosa dovrebbero fare in caso di incidente, nonostante la legge imponga di farlo. Questa centrale fa parte dell’eredità dell’atomo italiano, e da solo pesa sulle bollette degli italiani ben 400 milioni di euro all’anno. È inattiva dal 1987, ma continua a rilasciare radioattività, sia in atmosfera che nelle acque del Po. Nonostante i rischi coi quali la popolazione convive, l’unico piano di emergenza disponibile è tenuto segreto. Eppure la Legge Reg. n. 5 del 18 febbraio 2010 impone che «la Regione e i comuni interessati, senza che i cittadini ne debbano fare richiesta, assicurino preventivamente alla popolazione l’informazione sulle misure di protezione sanitaria» e il comportamento da adottare in caso di emergenza. Un silenzio illegale, quello degli enti locali, che ha portato le associazioni Legambiente e Pro Natura a diffidare la Regione Piemonte e i comuni di Trino e Saluggia.
Secondo la testimonianza di Fausto Cognasso, cittadino del piccolo comune piemontese seriamente preoccupato per la propria salute e quella dei suoi cari, oltre che per l’ambiente, “non è mai stato detto ai trinesi, né è mai stato comunicato alla popolazione, un piano di emergenza, nonostante a imporlo sono sia la legge che le direttive comunitarie, e anche i regolamenti di recepimento. Questo piano di emergenza c’è ed è datato anno 2000, anche se per quanto ne sappiamo non ha mai avuto
una revisione dinamica”. Ma il vero problema è appunto che ciò “non viene fatto conoscere alla popolazione”. “Pensate cosa significa vivere comunque con questo tipo di problemi”, puntualizza Cognasso: “Se succedesse qualcosa io non saprei in che zona la mia casa si troverebbe da un punto di vista radiometrico, non saprei che cosa fare, dove andare, se abbandonare del tutto l’idea di tornare a casa o meno ecc”. La gente da quelle parti vive in una sorta di perenne limbo. E non è tutto. Questo piano di emergenza non ha originato per Trino neanche un piano di protezione civile. Un fatto che ha originato una diffida da parte di Legambiente e di Pro Natura piemontesi nei riguardi dei Comuni sia di Trino che di Saluggia, dove si trovano gli impianti nucleari, che della stessa Regione Piemonte. Che, appunto, dovrebbe rendere edotti i suoi cittadini dei piani di emergenza. Ma non lo fa.
Tre casi finali: Ghedi, Aviano e la base vicentina Dal Molin. Cosa ci dice di ognuna delle tre?
Che sono tre ottimi esempi per parlare dei rischi che corriamo per fare l’interesse altrui: in questo caso quello degli Stati Uniti, veri “padroni” di queste basi. Tra Ghedi ed Aviano ci sono stoccate una novantina di testate nucleari statunitensi, che non sono così facili da fare saltare in aria, ma che potenzialmente sono centinaia di volte più devastanti delle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki. La Dal Molin di Vicenza, invece, è uno dei casi più eclatanti dell’arroganza delle nostre istituzioni nell’imporre ad una comunità un’opera che porterebbe più danni che guadagni, sotto ogni aspetto. Questa base vicentina, destinata a diventare la più grande base militare americana su territorio europeo, ricorda un po’ la questione del Tav in Valle di Susa: un costo enorme ed una devastazione ambientale imposta alle persone del luogo da oscuri interessi che calano dall’alto.
Se però parliamo di zone militari, non si deve dimenticare del poligono del Salto di Quirra, in Sardegna, di cui si parla in modo abbastanza approfondito nel libro, dato che vi si provano da decenni armi di ogni tipo. incluse quelle all’uranio arricchito, che ha portato ad una situazione da film dell’orrore nei pascoli circostanti, dove più della metà dei pastori ha il cancro o la leucemia, e dove gli agnelli nascono con due teste, sei zampe o senza occhi ed organi genitali. Si può continuare ad accettare passivamente una situazione del genere? Evidentemente sì, ma solo se queste cose non si sanno.
Lei riporta un sondaggio di Greenpeace, secondo il quale, su un campione di 1000 intervistati solo il 10,9 per cento era certo della presenza di armi nucleari in Italia e il 21,9 lo riteneva probabile. A che punto è oggi l’informazione italiana sul nucleare?
Di sicuro c’è un briciolo di consapevolezza in più, soprattutto grazie al lavoro di organi di informazione come quello che ci ospita ora, a quello di editori come Aliberti, interessato a questi temi; ma anche di giornali come Il Fatto Quotidiano, che tende a non tacere questi argomenti “scomodi”; o di personaggi come Beppe Grillo, che è stato fra i primi in Italia a sollevare certe questioni. Anche in questo caso vorrei però citare uno degli esperti intervistati nel libro, il professor Massimo Zucchetti, docente presso il Politecnico di Torni in Protezione dalle radiazioni e ricercatore nel prestigioso MIT di Boston, a cui ho fatto più o meno la stessa domanda, e che ha risposto: “Noi siamo stati esposti a varie nubi di disinformazione, che hanno fatto sì che si abbiamo delle strane convinzioni, tra cui appunto il fatto che la nostra economia dovrebbe decollare per una cosa che sarebbe pronta nel 2032, e di cui si dovrebbe pagare almeno la metà del costo non si sa in che modo. Noi cerchiamo di fare molta informazione, come sta cercando di fare anche Lei. Abbiamo molti canali attraverso i quali cerchiamo di fare capire come stanno le cose”.
È un lavoro difficile, quello che attende chi vuole fare buona informazione su queste tematiche. Ma indispensabile. Qui non si tratta di ideologie, opinioni o prese di posizione. Sono dati oggettivi che dovremmo prendere in considerazione. Sia per una questione di costi che soprattutto per rispetto nei confronti di chi deve ancora nascere. Che, solo per dare a noi l’illusione di potere eventualmente pagare delle bollette meno salate (cosa peraltro non vera), dovrà pagare per noi un conto finale molto, troppo salato.
Thanks to: Informazione Libera
C’è un libro, uscito recentemente, che racconta fatti inquietanti e maledettamente documentati. Si chiama “Scorie radioattive” (Aliberti) ed è stato scritto da Andrea Bertaglio e Maurizio Pallante. Non è il solito libro pro o contro il nucleare, ma un compendio di fatti reali sui quali, nonostante quanto vi sia riportato, c’è ancora un grande silenzio informativo. Si può essere sicuramente favorevoli al nucleare, ma nel libro si raccontano le conseguenze di ciò che è stato il nucleare in Italia e dei costi che paghiamo tuttora. Si può essere favorevoli al nucleare, a patto che la popolazione sia informata, come in ogni democrazia. Invece pare di no. Perché in queste pagine sono riportate questioni allarmanti e vicende del tutto ignote alla gran parte della gente. Abbiamo incontrato Andrea Bertaglio.
Nella seconda parte del suo recente libro “Scorie Radioattive” (Aliberti) scritto insieme a Maurizio Pallante, lei racconta alcune storie inerenti il nucleare italiano che non sono esattamente note a tutti. Cominciamo dai treni carichi di scorie radioattive che fanno la spola tra Italia e Francia. Di cosa si tratta?
L’avventura nucleare italiana ci ha lasciato in eredità una serie di problemi ancora tutti da risolvere. Primo su tutti, appunto, quello delle scorie radioattive. Alcune di queste viaggiano per l’Europa in attesa di essere stoccate definitivamente in un deposito che, però, in Italia ancora non c’è. Lo fanno trasportati su treni di container carichi di combustibile nucleare esaurito. Che, nel pieno della notte, di tanto in tanto partono dall’Italia per raggiungere la centrale di riprocessamento de La Hague, in Francia. È un lungo percorso, quello delle scorie del vecchio nucleare italiano, che dal Piemonte va nella Manche, passando attraverso numerosi dipartimenti: zone densamente popolate come l’hinterland torinese o la Valle di Susa. Ma anche la Région parisienne, la zona più popolosa d’Oltralpe. Le scorie italiane percorrono infatti nei loro viaggi anche la Rer (Rete espressa regionale), il servizio ferroviario urbano e suburbano dell’area metropolitana di Parigi, frequentata da centinaia di migliaia di persone. Una volta attraversata, vengono caricate su camion e raggiungono l’impianto Areva di La Hague, appunto, per essere “trattate”. Dopo tutto questo giro, in date spesso ignote, ripartono per l’Italia.
Nel libro si parla ad esempio delle tredici tonnellate di combustibile nucleare irraggiato che dal vecchio reattore della Garigliano, centrale nucleare da 150 MW a Sessa Aurunca (CE) chiusa definitivamente nel 1982, ben cinque anni prima del referendum che mise fine al nucleare in Italia, un anno fa sono state spedite prima a Saluggia, in provincia di Vercelli, e poi appunto in Francia, provocando forti scontri fra i manifestanti e la polizia. Un fantasma atomico che ha attraversato l’Europa alla ricerca di soluzioni e che, visto l’approccio approssimativo con cui viene gestita la questione, ha messo più volte in apprensione le popolazioni locali interessate.
La popolazione è informata di questi passaggi o sa come tutelarsi nel caso di un incidente?
Purtroppo no, generalmente non viene comunicato nulla alla popolazione riguardo al passaggio di questi treni. Il motivo potrebbe essere quello di non informare un eventuale terrorista delle modalità e degli orari del trasporto. Quello che però gli attivisti e i cittadini contestano non è tanto il fatto che non informino su quando avvengono questi trasporti, ma che non informano la popolazione sulle misure da adottare in caso di emergenza. Indipendentemente da quando questi trasporti nucleari avvengono, la popolazione che vive lungo quel tratto di ferrovia deve essere informata su cosa deve fare in caso di necessità; e questo è obbligatorio sia per la legge italiana, che per quella europea, che per quella regionale del Piemonte. Il protocollo di legge prevede infatti che la popolazione venga avvisata per tempo e che venga predisposto un piano di sicurezza. Una situazione assurda, se ci si pensa, che ha portato le sezioni piemontesi delle associazioni ambientaliste Pro-Natura e Lagambiente a diffidare la stessa Regione Piemonte. Non perché non ha mai detto a che ora passano i treni, cosa che peraltro non è obbligata a fare, ma proprio perché non è mai stato diffuso un piano di emergenza.
Certo, sarebbe complicato, perché le persone coinvolte sarebbero moltissime, visto che questi piani di emergenza prevedono che si allerti la popolazione residente in una fascia di duecento metri ai lati della ferrovia da cui passano questi treni, ma per legge la Regione Piemonte sarebbe tenuta a farlo. In caso di incidente sono previste delle misure sia di evacuazione che di permanenza in casa, e le persone per legge dovrebbero saperle prima, così da evitare un macello nel momento in cui dovesse succedere qualcosa di indesiderato.
Cosa potrebbe accadere in caso di incidente?
È facile intuirlo. Un treno di rifiuti radioattivi che dovesse disperdere anche una piccola parte del suo contenuto in una zona densamente popolata come quelle attraversate potrebbero creare tragedie che non si risolverebbero tanto facilmente. Basta vedere cosa è successo l’anno scorso in Giappone, dove le persone ancora oggi sono costrette a vivere al di fuori della cosiddetta “zona di esclusione”, e possono fare rientro a casa propria una sola volta al mese, per evitare eccessivi rischi di contaminazione. Certo lì si sta parlando di una intera centrale, ma sarebbe meglio non sottovalutare nemmeno questi trasporti che, come abbiamo visto, hanno provocato accese proteste anche in Germania. Bisogna stare allerta, senza creare allarmismi, ma considerando che un rischio enorme deriva anche solo dal fatto che la gente, quando in caso di emergenza non sa come comportarsi, può anche peggiorare la situazione.
E tutto ciò per cosa? Per non risolvere il problema. Quella del riprocessamento in Francia è infatti una cosa completamente inutile: in questo modo l’unica cosa che si fa è quella di togliere le barre di combustibile dall’Italia per un po’ di tempo (dieci o quindici anni), senza però risolvere il problema. La radioattività dopo qualche anno ritornerà completamente. Una questione prettamente di immagine per chi fa queste scelte, che però rinvia solamente la risoluzione dei problemi. Che non si limitano a Trino e Saluggia, ma riguardano anche Caorso, ad esempio, che ha mandato tutte le sue scorie in Francia per il riprocessamento, ma che appunto riceverà presto tutto indietro. Queste barre dovrebbero trovarsi invece nel famoso deposito nazionale, che l’Italia comunque prima o poi dovrà fare. Doveva essere fatto per legge entro il 31 dicembre 2008, ma ancora non c’è. E queste scorie continuano ad andare avanti e indietro per il pianeta.

Sì, nonostante i festeggiamenti seguiti alla schiacciante vittoria dei sì ai referendum dello scorso
giugno, i cittadini italiani dovranno sostenere questi enormi costi per la bonifica completa dei siti e degli impianti preesistenti. Una cifra importante, rivelata da Sogin, la società per la gestione degli impianti nucleari controllata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, responsabile del decommissioning nazionale, ossia del piano di gestione delle scorie radioattive e bonifica delle centrali nucleari: solo nei primi cinque anni si dovranno spendere 400 milioni di euro. La gestione (lo smaltimento non è possibile) delle scorie nucleari prodotte in Italia nel periodo atomico (1946-1990), che a metà anni Sessanta ha portato il Paese a essere il terzo maggiore produttore di energia nucleare, dopo Stati Uniti e Gran Bretagna, già nel 1998 è stata affidata alla Sogin, una società pubblica che, in quanto tale, porta gran parte dei costi generati dalle attività che le sono state affidate ad essere sostenuti dagli italiani. Siamo infatti noi cittadini, in un momento già difficile di suo, a dovere pagare lo smantellamento attraverso le bollette dell’elettricità, alla voce “oneri nucleari” contenuta nella componente A3. E se a quasi venticinque anni dall’abbandono della produzione di energia da fonte termonucleare si devono ancora affrontare tutti questi problemi e questi costi, è difficile immaginare quanto si sarebbe speso se il referendum del 1987 avesse dato un esito diverso.
Tra i particolari più inquietanti c’è il racconto sul comune di Saluggia, in provincia di Vercelli. Sostiene che le esondazioni di Po, Tanaro e Dora Baltea potrebbero causare qualcosa di più di un danno ambientale. Di cosa si tratta?
In Piemonte si è passato con il fiato sospeso gran parte dell’autunno 2011 a causa delle abbondanti piogge. Le preoccupazioni erano legate in particolare alle possibili esondazioni dei fiumi Po e Tanaro, ma soprattutto della Dora Baltea, che scorre proprio da Saluggia, nel vercellese, dove è stipato l’85 per cento di tutti i rifiuti radioattivi italiani. Si trovano presso l’impianto Eurex e il deposito Avogadro, e sono perlopiù in forma liquida: rifiuti altamente radioattivi che, ormai da trent’anni, si trovano letteralmente a due passi dalla Dora Baltea, su un terreno ghiaioso-sassoso che aumenta il rischio di contaminazione, e a 1,5 km dal più grande acquedotto del Piemonte, quello del Monferrato. Non sorprende dunque che i rischi di contaminazione siano enormi. Tanto che il premio Nobel per la fisica Carlo Rubbia, quando durante l’ultima alluvione, nel 2000, vide l’acqua sommergere gran parte dei depositi, affermò che si era sfiorata una «catastrofe planetaria».
E non stiamo parlando di una possibilità così remota, ormai. Soprattutto se consideriamo il fatto che di alluvioni tragiche, in questa zona, ce ne sono state tre nell’arco di soli sette anni: una nel 1993, una nel 1994 e una appunto nel 2000. E questo nonostante celebri geologi e idrogeologi avessero previsto che alluvioni di tale portata si sarebbero potute verificare una sola volta nell’arco di un migliaio di anni. La piovosità è evidentemente cambiata negli ultimi vent’anni, così come la risposta idrogeologica dei bacini idrografici, che quando piove vedono l’acqua arrivare in poche ore al fiume. Queste cose trent’anni fa non le prevedevano per niente, e forse ce ne sono altre che ora sembrano improbabili, ma che dovremmo iniziare a considerare.
Sempre per ciò che concerne Saluggia, lei scrive che sarebbero ospitati anche 5 kg. di plutonio.
Nel deposito Avogadro sono stati stoccati elementi e combustibili irraggiati, portati lì per essere sciolti presso l’impianto Eurex, che si trova a ottocento metri di distanza lungo la riva del fiume, per recuperare il plutonio. Questo è stato solidificato e si trova presso questo impianto in quantità di 5 kg, una quantità sufficiente a uccidere cinquanta milioni di persone. C’è infatti da tenere presente che il plutonio (anche quello non utilizzato per scopi militari) ha una radiotossicità notevolissima: un decimo di milligrammo, se inspirato, costituisce ufficialmente una dose mortale.
Ma non è tutto, per questo povero Comune piemontese. Nell’ottica di gestire le scorie del nostro passato atomico, sono ripresi sempre a Saluggia i lavori di costruzione del deposito D2 presso l’impianto Eurex, il deposito di scorie in cui, grazie al via libera del Comune, verranno temporaneamente (ossia prima di un ulteriore trasferimento presso il deposito nazionale, non ancora costruito) stoccati i rifiuti radioattivi italiani, inclusi quelli generati dal decommissioning dello stesso Eurex. La volumetria del D2 è di 30 mila metri cubi, e ospiterà i rifiuti radioattivi dell’impianto Eurex: 4300 metri cubi, di cui 2300 già nel sito e circa 2000 prodotti dallo smantellamento dell’impianto. La costruzione verrà eseguita nell’arco di tre anni, mentre la vita utile del deposito sarà di cinquant’anni. Un tempo relativamente breve, se si pensa a quello che serve alle scorie lasciateci in eredità dall’avventura nucleare italiana pre-Chernobyl per “perdere” la loro radioattività, ossia decine di migliaia di anni.
Quanto ai paesi a rischio di radioattività lei cita, tra gli altri: Trino, Caorso, Sessa Aurunca, Latina e Montalto di Castro, Rotondella, in provincia di Matera, e Bosco Marengo, in provincia di Alessandria. Perché sarebbero a rischio?
Perché sono tutte zone poco ortodosse, ossia zone provvisorie in cui non si è sufficientemente attrezzati per depositarci delle scorie radioattive per interi decenni. Sia a livello tecnico che di sicurezza. Alcuni di questi depositi, infatti, sono scarsamente controllati e facilmente penetrabili. In altri casi sono situati in zone sismiche o alluvionabili. Siamo l’unica nazione al mondo che non ha un sito pensato per lo smaltimento delle scorie pur avendo avuto delle centrali atomiche. Sarebbe tempo di risolvere almeno questo problema, invece di rinviarlo sine die.

La centrale E. Fermi di Trino, un altro paese in provincia di Vercelli a pochi chilometri di distanza da Saluggia, ricorda sotto certi aspetti quella dei “treni radioattivi”, nel senso che alle persone non è mai stato detto cosa dovrebbero fare in caso di incidente, nonostante la legge imponga di farlo. Questa centrale fa parte dell’eredità dell’atomo italiano, e da solo pesa sulle bollette degli italiani ben 400 milioni di euro all’anno. È inattiva dal 1987, ma continua a rilasciare radioattività, sia in atmosfera che nelle acque del Po. Nonostante i rischi coi quali la popolazione convive, l’unico piano di emergenza disponibile è tenuto segreto. Eppure la Legge Reg. n. 5 del 18 febbraio 2010 impone che «la Regione e i comuni interessati, senza che i cittadini ne debbano fare richiesta, assicurino preventivamente alla popolazione l’informazione sulle misure di protezione sanitaria» e il comportamento da adottare in caso di emergenza. Un silenzio illegale, quello degli enti locali, che ha portato le associazioni Legambiente e Pro Natura a diffidare la Regione Piemonte e i comuni di Trino e Saluggia.
Secondo la testimonianza di Fausto Cognasso, cittadino del piccolo comune piemontese seriamente preoccupato per la propria salute e quella dei suoi cari, oltre che per l’ambiente, “non è mai stato detto ai trinesi, né è mai stato comunicato alla popolazione, un piano di emergenza, nonostante a imporlo sono sia la legge che le direttive comunitarie, e anche i regolamenti di recepimento. Questo piano di emergenza c’è ed è datato anno 2000, anche se per quanto ne sappiamo non ha mai avuto
una revisione dinamica”. Ma il vero problema è appunto che ciò “non viene fatto conoscere alla popolazione”. “Pensate cosa significa vivere comunque con questo tipo di problemi”, puntualizza Cognasso: “Se succedesse qualcosa io non saprei in che zona la mia casa si troverebbe da un punto di vista radiometrico, non saprei che cosa fare, dove andare, se abbandonare del tutto l’idea di tornare a casa o meno ecc”. La gente da quelle parti vive in una sorta di perenne limbo. E non è tutto. Questo piano di emergenza non ha originato per Trino neanche un piano di protezione civile. Un fatto che ha originato una diffida da parte di Legambiente e di Pro Natura piemontesi nei riguardi dei Comuni sia di Trino che di Saluggia, dove si trovano gli impianti nucleari, che della stessa Regione Piemonte. Che, appunto, dovrebbe rendere edotti i suoi cittadini dei piani di emergenza. Ma non lo fa.

Che sono tre ottimi esempi per parlare dei rischi che corriamo per fare l’interesse altrui: in questo caso quello degli Stati Uniti, veri “padroni” di queste basi. Tra Ghedi ed Aviano ci sono stoccate una novantina di testate nucleari statunitensi, che non sono così facili da fare saltare in aria, ma che potenzialmente sono centinaia di volte più devastanti delle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki. La Dal Molin di Vicenza, invece, è uno dei casi più eclatanti dell’arroganza delle nostre istituzioni nell’imporre ad una comunità un’opera che porterebbe più danni che guadagni, sotto ogni aspetto. Questa base vicentina, destinata a diventare la più grande base militare americana su territorio europeo, ricorda un po’ la questione del Tav in Valle di Susa: un costo enorme ed una devastazione ambientale imposta alle persone del luogo da oscuri interessi che calano dall’alto.
Se però parliamo di zone militari, non si deve dimenticare del poligono del Salto di Quirra, in Sardegna, di cui si parla in modo abbastanza approfondito nel libro, dato che vi si provano da decenni armi di ogni tipo. incluse quelle all’uranio arricchito, che ha portato ad una situazione da film dell’orrore nei pascoli circostanti, dove più della metà dei pastori ha il cancro o la leucemia, e dove gli agnelli nascono con due teste, sei zampe o senza occhi ed organi genitali. Si può continuare ad accettare passivamente una situazione del genere? Evidentemente sì, ma solo se queste cose non si sanno.
Lei riporta un sondaggio di Greenpeace, secondo il quale, su un campione di 1000 intervistati solo il 10,9 per cento era certo della presenza di armi nucleari in Italia e il 21,9 lo riteneva probabile. A che punto è oggi l’informazione italiana sul nucleare?
Di sicuro c’è un briciolo di consapevolezza in più, soprattutto grazie al lavoro di organi di informazione come quello che ci ospita ora, a quello di editori come Aliberti, interessato a questi temi; ma anche di giornali come Il Fatto Quotidiano, che tende a non tacere questi argomenti “scomodi”; o di personaggi come Beppe Grillo, che è stato fra i primi in Italia a sollevare certe questioni. Anche in questo caso vorrei però citare uno degli esperti intervistati nel libro, il professor Massimo Zucchetti, docente presso il Politecnico di Torni in Protezione dalle radiazioni e ricercatore nel prestigioso MIT di Boston, a cui ho fatto più o meno la stessa domanda, e che ha risposto: “Noi siamo stati esposti a varie nubi di disinformazione, che hanno fatto sì che si abbiamo delle strane convinzioni, tra cui appunto il fatto che la nostra economia dovrebbe decollare per una cosa che sarebbe pronta nel 2032, e di cui si dovrebbe pagare almeno la metà del costo non si sa in che modo. Noi cerchiamo di fare molta informazione, come sta cercando di fare anche Lei. Abbiamo molti canali attraverso i quali cerchiamo di fare capire come stanno le cose”.
È un lavoro difficile, quello che attende chi vuole fare buona informazione su queste tematiche. Ma indispensabile. Qui non si tratta di ideologie, opinioni o prese di posizione. Sono dati oggettivi che dovremmo prendere in considerazione. Sia per una questione di costi che soprattutto per rispetto nei confronti di chi deve ancora nascere. Che, solo per dare a noi l’illusione di potere eventualmente pagare delle bollette meno salate (cosa peraltro non vera), dovrà pagare per noi un conto finale molto, troppo salato.
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